A Gela l’aria sa di ruggine e rassegnazione. Qui il petrolchimico dell’ENI, simbolo di un progresso promesso e mai mantenuto, ha riscritto la geografia dei corpi e dei destini. Tra torri di fumo e falde inquinate, la comunità vive da decenni una convivenza forzata con un colosso industriale che ha divorato il territorio, lasciando in cambio malattia, disoccupazione e silenzi istituzionali. Questo reportage nasce da quelle crepe, da quelle voci che resistono nonostante tutto, per raccontare ciò che resta quando il profitto si prende tutto.
L’inquinamento a Gela non è solo una questione ambientale: è una condizione esistenziale. Le falde acquifere sono contaminate da metalli pesanti, i terreni agricoli resi sterili da decenni di sversamenti, e l’aria carica di composti tossici che entrano nei polmoni come un diritto negato. I tumori qui non sono numeri, ma volti familiari. L’anomalia è diventata normalità, e l’assuefazione al rischio sanitario è il prezzo invisibile pagato ogni giorno da chi resta. La mappa dell’inquinamento coincide con quella della povertà: interi quartieri sacrificati sull’altare di un’industria che ha smesso da tempo di creare lavoro, ma continua a generare danni.
A pochi chilometri dagli impianti, tra le colline bruciate dal sole e l’asfalto che si sgretola, giace l’ennesimo simbolo dell’abbandono: un’opera incompiuta, una strada che avrebbe dovuto collegare il polo industriale al porto, promessa come infrastruttura strategica per rilanciare l’economia locale. I lavori sono stati avviati, interrotti, rimandati, poi dimenticati. Oggi è un serpente di cemento spezzato, chiuso da transenne arrugginite e invaso dalle erbacce. Doveva essere un ponte verso il futuro, è diventato un monumento all’immobilismo, all’incapacità  o alla complicità di chi ha gestito decenni di “sviluppo” a senso unico. Un’infrastruttura mai nata, che racconta meglio di ogni dato la distanza tra le promesse e la realtà.
Il mare di Gela, un tempo fonte di sostentamento e identità per intere generazioni di pescatori, oggi è una distesa muta. Le reti si tirano a vuoto, le barche restano ormeggiate, e chi ancora prova a uscire lo fa più per abitudine che per speranza. Le analisi raccontano di fondali contaminati, di una biodiversità compromessa, di pesci che fuggono o che non possono più sopravvivere. I vecchi pescatori parlano con amarezza di un mare che è stato svuotato lentamente, soffocato dai reflui industriali, dalle perdite di idrocarburi, dai veleni invisibili sversati per decenni senza controllo. La pesca non è più un mestiere, ma una memoria in estinzione. E quel che resta è un senso diffuso di perdita: non solo economica, ma culturale, affettiva, radicale.
La storia del petrolchimico di Gela è anche una lunga scia di carte bollate, processi e archiviazioni. Le questioni giudiziarie che hanno attraversato decenni di attività dell’ENI sono molteplici: inquinamento ambientale, disastro colposo, omessa bonifica. Eppure, tra prescrizioni, rinvii e indagini rimaste senza colpevoli, la giustizia ha spesso avuto il passo lento e incerto della burocrazia, mentre l’inquinamento avanzava con brutalità costante. Gli abitanti parlano di “verità negate”, di indagini che non hanno mai scavato abbastanza, di responsabilità rimaste sospese in un vuoto che sa di impunità. A ogni processo segue una promessa di bonifica, un tavolo tecnico, un piano di riconversione. Ma la sostanza non cambia: le ferite ambientali restano aperte e chi le ha provocate raramente ne ha pagato il prezzo. In un territorio dove lo Stato spesso appare solo nei tribunali o nei decreti, la sfiducia nella giustizia è diventata parte del paesaggio.
Tra le tante ferite ambientali di Gela, ce n’è una che si estende su un altopiano arido, alle spalle della città. Un’area trasformata per anni in discarica industriale, dove venivano conferiti rifiuti speciali legati direttamente all’attività del polo chimico. Nessuna reale protezione, nessuna trasparenza. Solo interramenti, silenzi e l’illusione che tutto potesse sparire sotto terra. Oggi quel sito è abbandonato, in attesa di una bonifica promessa e mai realizzata. I progetti si rincorrono, i fondi vengono stanziati, ma intanto il tempo passa, e con esso cresce la sfiducia. La terra è spoglia, segnata da anni di incuria, ma continua a restituire odori, sostanze, inquietudini. È il volto più crudo dell’eredità lasciata a Gela: un paesaggio contaminato dove nulla è stato davvero chiuso, né dimenticato.
A Gela, nascere è già un rischio. Le statistiche lo dicono con crudezza: il tasso di malformazioni neonatali è tra i più alti d’Italia, e le morti infantili superano la media nazionale. Ma dietro i numeri ci sono storie spezzate, culle vuote, madri che non smettono di chiedere perché. I medici parlano sottovoce, con cautela, mentre le famiglie raccontano senza più paura: bambini nati con difetti cardiaci, neurologici, scheletrici. Troppi per essere solo sfortuna. Gli studi epidemiologici hanno più volte indicato la correlazione tra l’inquinamento industriale e l’aumento di patologie gravi, ma le istituzioni si muovono con lentezza, come se nominare il legame diretto tra malattia e industria fosse un tabù da non violare. Intanto, nelle case popolari costruite a ridosso delle ciminiere, si cresce con l’ombra della paura addosso. E ogni lutto, ogni diagnosi, ogni ricovero diventa un’accusa muta rivolta a un sistema che ha barattato la salute collettiva per profitti privati.
Il cane a sei zampe, simbolo dell’ENI, nasceva per rappresentare potenza, controllo, l’energia domata dall’industria. A Gela quel simbolo è ovunque: impresso sui muri, nei documenti, nei ricordi di chi ha vissuto gli anni in cui tutto sembrava possibile. Oggi però quel segno non comunica più progresso, ma un passato ingombrante. Durante uno degli ultimi sopralluoghi, un cane è sbucato all’improvviso da dietro una recinzione. Non era randagio per caso: ringhiava, nervoso, come se difendesse qualcosa. O forse, come se sapesse di non poter più difendere nulla. La scena è durata pochi secondi, ma bastava a incrinare ogni retorica. Nessuna simbologia costruita, solo una presenza viva, ruvida, quasi in opposizione a quello che il cane a sei zampe voleva rappresentare. 
Nel contrasto tra l’animale vero e quello del marchio c’è tutto lo scarto tra ciò che è stato promesso e ciò che oggi resta: una città ferita, diffidente, che continua a reagire. Anche con rabbia.

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