Mumbai, 5 del mattino. Rumori di preghiere e clacson. Guardo il soffitto e penso a quello che mi disse una volta il grande fotoreporter Ivo Saglietti: “A chi piace dormire al mattino non faccia il fotografo“. Mi alzo. Il telefono sul comodino vibra silenziosamente. Una mail che non pensavo avrei ricevuto, tanto meno a quell’ora: Daulat Bi Khan, la presidente dell’associazione vittime dell’acido – Acid Survivor Saahas Foundation (ASSF)- accetta di vedermi per un’intervista. Donne sfregiate con l’acido. Non un tema facile da affrontare, soprattutto per un uomo bianco in un Paese in cui le prime vittime di uomini violenti sono le donne.

Chiamo il mio fixer Abhishek e partiamo. Bevo un chai, prendiamo un taxi, un altro chai, un tuk tuk e un altro chai. Il senso di imbarazzo e disagio per una sofferenza che forse non posso neanche immaginare mi attanaglia. Arriviamo alla sede della ASSF. Daulat mi stringe la mano. Il contatto umano, per nulla scontato in un Paese come l’India, rompe il ghiaccio.
Daulat quasi non aspetta le mie domande. Mi porta subito a quel giorno, nel 2010, quando la sua vita e quella di 4 membri della sua famiglia (due sorelle e una nipotina) sono cambiate in una frazione di secondo, per sempre.

Quando l’acido le è caduto sul viso, in maniera quasi surreale, come a volte succede in alcuni momenti topici dell’esistenza, Daulat ha ripensato alle immagini di un film che aveva visto da ragazza: “Teezab”, acido appunto. All’inizio sembrava ghiaccio gelido, ma dopo un secondo, quando il dolore vero è iniziato, è stato peggio della morte. Parla senza prendere fiato, Daulat. Ma sceglie con cura le parole e descrive lo scorrere dell’acido come “fiumi dell’inferno”. Ripensa ai vestiti che le si attaccavano al corpo lacerato. Daulat non ricorda come sia arrivata in ospedale. Sa solo che ha perso la vista dell’occhio sinistro, e che entrambe le orecchie non erano più quelle di un essere umano.
Abhishek inizia a singhiozzare, io sono immobile. Daulat aveva rifiutato le avances di suo cognato. Andava punita, lei e le altre donne della sua famiglia. Il cognato rifiutato, sua sorella e il figlio organizzano la punizione. Dopo l’attacco, Daulat ha perso il lavoro come truccatrice e ha lottato per trovare altri lavori, perchè le persone si spaventavano e si rifiutavano di assumerla.

Orecchie e pelle danneggiate, rischi di amputazione degli arti e un totale di 17 interventi chirurgici ad oggi (più gli altri necessari) hanno richiesto una grande quantità di denaro. Ma essendo madre di 4 figli, Daulat ha dovuto fare tutto il necessario per nutrire i suoi figli: dall’elemosina per strada davanti a una moschea, appena 6 mesi dopo l’attacco all’accattonaggio.
Attualmente, Daulat ha fondato e gestisce con orgoglio la ONG Acid Survivors Saahas Foundation (ASSF) che dal 2016, a Mumbai, offre sostegno alle vittime di attacchi con l’acido, fornendo loro assistenza medica, consulenza legale e supporto psicologico. L’ASSF aiuta centinaia di donne, uomini, transgender e bambini a ricostruire la propria vita e offre corsi di formazione professionale con lo scopo di promuovere il reinserimento lavorativo e sociale e ricominciare a vivere una vita dignitosa.

UNA PIAGA SENZA FINE
In India, gli attacchi contro le donne sono una piaga senza fine, che ogni anno vede il numero delle vittime aumentare. Il National Crime Record Bureau ha denunciato 1362 attacchi negli ultimi 5 anni, ma con grande probabilità sono molti di più: circa il 60% delle vittime infatti non li denuncia. Nonostante i tentativi del governo e della Corte Suprema di arginare il problema, i casi continuano ad aumentare e la causa si nasconde anche nella cultura patriarcale indiana: oltre il 70% dei casi sono infatti rivolti a donne. Inoltre, le scarse tutele legali offerte alle vittime rendono questo crimine facile da commettere e difficile da punire.Il dolore terribile del corpo si somma a quello dell’anima, alla sofferenza si aggiunge l’isolamento e la stigmatizzazione sociale. Le persone vittime di un attacco con l’acido, in particolare le donne, vengono spesso rifiutate in molti contesti e alcune attività anche banali della vita quotidiana risultano impegnative. È raro vedere qualcuno con la pelle danneggiata su un risciò: gli autisti molto spesso inventano scuse ridicole o, se la vittima li costringe e insiste per farsi trasportare, mostrano indifferenza.

I dati sui pazienti ustionati ricoverati in ospedale in tutto il mondo rivelano tassi di incidenza per aggressioni con acido dal 3% al 10% e la percentuale media della superficie corporea ustionata in attacco con l’acido è di circa il 20%.
In diverse parti del mondo, il tentativo di bruciare altri (o se stessi) può essere attribuito a svariati motivi, che spaziano da abuso di droghe e alcol, mancata partecipazione ad attività religiose e comunitarie, relazioni instabili e relazioni extraconiugali. Alcune donne si coprono con un velo, soprattutto per strada e Daulat e la ASSF cercano di infondere loro il loro coraggio e la fiducia in sè stesse camminando insieme per la città.

I tassi di ustioni intenzionali da attacchi con acido sono distribuiti in modo non uniforme nel mondo: sono più comuni nei paesi asiatici, in particolare nella regione del sud-est asiatico, seguiti da Europa e Sud America. Rimangono però paesi come Bangladesh, India, Pakistan, Colombia e Cambogia quelli con la più alta incidenza di attacchi con l’acido contro le donne: l’India è in testa con oltre il 70% di attacchi alle più giovani. In India l’acido si reperisce facilmente, la legge non funziona e la cultura patriarcale vede spesso le donne proprietà degli uomini. L’acido infligge danni permanenti, deturpa il corpo e la vita delle vittime.
Daulat mi racconta storie di coraggio e resilienza, di donne che, nonostante le atrocità subite, trovano la forza di ricostruire le loro vite. Per quelle che faticano a farlo, lei si fa batte per farle reagire. E mi chiede di fotografare anche Ashu, Mabiya, Zakira, altre donne che hanno subito attacchi con l’acido, con le quali sta lavorando per ricostruire le loro vite, sensibilizzare l’opinione pubblica e aiutare le nuove vittime che, purtroppo, continuano ad esserci.
Ashu Ganeriwal è una donna della ASSF. La sua vita è improvvisamente cambiata l’11 dicembre 2014, quando è stata aggredita con l’acido insieme alla sua amica, da un uomo che probabilmente faceva parte dell’esercito indiano.

Il liquido ha corroso rapidamente la loro pelle e il dolore e la sofferenza iniziati quel giorno “è qualcosa che solo io e la mia amica possiamo sapere”, ha detto. Con circa 12 interventi medici alle spalle, che hanno permesso di ricostruire anche le parti che l’acido aveva sciolto, adesso è vicina all’obiettivo del suo piano di trattamento. Ma Ashu sta ancora aspettando e sperando di ottenere un lavoro.
Solo alcune delle vittime possono contare sul sostegno di una parte della loro famiglia, spesso costituita da donne. E’ il caso di Mabiya, la cui figlia, Anisha, rappresenta per lei un valido sostegno per superare le sfide quotidiane e per la quale prega, chiede aiuto e desidera che studi e si costruisca un futuro luminoso.

Per Mabiya invece il futuro è opaco e incerto. In una domenica apparentemente ordinaria di settembre, nel 2012, si è svegliata intorno alle 5 con una sensazione di bruciore agli occhi, ha cercato immediatamente aiuto e cercando di guardare verso la porta ha notato il marito, con sua sorpresa il suo carnefice. Nei tentativi di aprire gli occhi, l’acido penetrava sempre più in profondità, provocandole un danno irrevocabile alla vista. La negligenza dei medici dell’ospedale ha fatto il resto, ritardando le cure d’urgenza, facendo perdere tempo prezioso: 6 anni in ospedale e 30 interventi chirurgici non sono bastati per ritrovare il suo viso e il suo aspetto originale, lasciandola devastata. Non solo fisicamente: come conseguenza di tutto questo, Mabiya fatica ad arrivare a fine mese senza un alloggio o un lavoro adeguati. Ora vive con i suoi genitori, che fanno lavori saltuari per mandare avanti la famiglia anche se stanno invecchiando. Sua figlia rimane il suo raggio di speranza.

Tra le donne che cercano una direzione, costrette a dirigersi verso qualcosa che la società tollera o consente, ci sono anche donne che decidono di costruirsi un futuro libero e indipendente. Come Zakira, che aveva iniziato il suo percorso di autodeterminazione già prima dell’attacco e anzi, forse questo è stato proprio il motivo per cui è stata sfigurata con l’acido: suo marito era un pigro conducente di risciò che non lavorava duramente, così lei iniziò a lavorare, con l’obiettivo di sostenere finanziariamente la sua famiglia. Suo marito non era d’accordo, iniziò a dubitare di lei e nel 2017 le gettò addosso dell’acido.

I cambiamenti del volto di Zakira dovuti all’effetto dell’acido spaventarono anche le sue figlie, che inizialmente rifiutarono l’idea che fosse lei la madre che conoscevano. Dopo “essere rinata”, è diventata una truccatrice, lavora per aumentare la fiducia delle donne in sè stesse, cominciando da lei. Rappresenta un simbolo di emancipazione e bellezza, superando cicatrici esterne ed interne.

Oggi vive con la figlia Atifa, che la assiste in molti compiti della vita quotidiana e per alcuni aspetti del suo lavoro.

Da quel momento ogni stretta di mano è l’ingresso verso le storie delle altre donne, una porta da lasciare aperta per mettere in luce un fenomeno così tremendamente diffuso e del quale si parla, e soprattutto si fa, ancora sempre troppo poco. Le stringo di nuovo la mano, felice che quel contatto umano abbia aperto la porta a un sentire del dolore altrui più profondo.

“Non siamo delle vittime dell’acido. Siamo delle vincitrici”
Daulat Bi Khan