
Se per uno come Kipling, che l’India la conosceva bene, “la prima condizione per comprendere un Paese è annusarlo” – perdendosi in quel “non so che di speziato”, direbbe un viandante distratto in viaggio per Darjeeling – potremmo aggiungere che una seconda condizione fondamentale, e imprescindibile, è quella di inquadrarne i colori con gli occhi dell’anima: per imprimere un ricordo che svanirà a fatica nella memoria. E colui che assiste allo spettacolo mistico della celebrazione dell’Holi, festa religiosa profondamente radicata in tutta l’India, lo sa bene.



Coincidente con il terminare dell’inverno e l’incedere della primavera, la festa dell’Holi celebra ogni anno la stagione della fertilità con una deflagrazione di colore che si staglia nei grandi centri urbani al nord del Paese. Invadendo ogni angolo e spiraglio dell’India. Avvolgendo ovunque persone, animali, antiche mura come nuove strade, e viandanti di passaggio che percorrendole rimangono rapiti da questo saluto alla vita attraverso il pressante turbinio della vita stessa. Dalle fronde degli alberi al minuscolo filo d’erba appena nato dalla terra, è impossibile fuggire dal talco di mille colori che quasi pare cadere, senza distinzione alcuna, sull’intero creato: riconciliando opposti e contraddizioni di una Paese sconfinato.




Appena arrivati a Vrindavan, centro abitato di discreta grandezza situato nel nord dell’india, profondamente legato a Krishna, ottava incarnazione del dio Visnù che secondo quanto raccontato avrebbe trascorso proprio in questi luoghi gran parte della sua infanzia, risultò evidente il raggiungimento del “punto più alto” d’espressione della celebrazione. Radhe! Radhe! È il saluto rivolto da tutti e per tutti. Chi ci accoglie, uomini e donne, fedeli estatici devoti della stessa divinità, non fa altro che ripeterlo: Radhe! Radhe!



Sotto lo spesso strato di polveri colorate, diventa difficile notare differenze. Si perde traccia d’ogni povertà e d’ogni ricchezza, del giusto come dello sbagliato pur arbitrario, dell’indiano e dello straniero, del forestiero. L’obiettivo della macchina fotografica, che prende colore e va per questo salvaguardata, restituisce invece profili unici e liberi in un quadro dipinto con le tempere degli stessi colori: immortalando coloro che festeggiano, coloro che pregano e coloro che si fermano a riposare.





A dispetto d’ogni aspettativa di coinvolgimento nella festa, immergersi nell’Holi Festival è un modo per scontrarsi con una realtà caotica, affollata, a tratti insopportabile per via degli interminabili fiumi di uomini e donne colti da un’apparente irrazionalità, che finiscono comunque a determinarne il corso. Una volta in mezzo a quella marea colorata, a quella massa informe di anime esaltate, spinti oltre limiti accettabili, non resta che improvvisare soluzioni di fortuna. Ci si copre il volto per respirare nella speranza di trovare in fretta un vicolo, un pertugio, un riparo che possa offrire una boccata d’aria o un momento di tregua prima di tornare in mezzo agli altri, che ancora gridano Radhe!

Quando si ritorna tra la folla però, si baratta di nuovo ogni libertà: per muoversi in una direzione, si segue inevitabilmente il flusso e il peso dei corpi che lo premono. La meta diventa spesso un faticoso punto di compromesso tra dove decidi di andare e dove arrivi. L’aria è pesante, ma il corpo, che alla fine cede il potere di controllare i propri movimenti, diventa leggero. Le urla di disagio si confondono con le grida entusiaste di venerazione per Krishna. E capita così di scendere giù da una rampa di scale senza poggiare i piedi per terra, trascinati per le strade che portano al tempio di Banke Bihari, dove crescono le grida di euforia e di preghiera, e dove la fretta di entrare concede a malapena il tempo di lasciare sulla soglia le certezze più spicciole: il paio di ciabatte che indossavi verranno confuse nel cumulo con tutte le altre, e già sai che probabilmente non le ritroverai più.




Lasciando fuori cose superflue come un paio di semplici ciabatte, comunque sostituibili, ci si appresta ad incontrare nel tempio gli affetti più profondi che ognuno ha portato fin là. Mano a mano che ci si addentra, si sente crescere la parte spirituale e l’astrarsi di quella umana: una folla fervente muove anche chi pensava di restare fermo. I bambini vengono portati sulle spalle a fatica dai padri che, a un passo dal cedere alla stanchezza, li passano di mano in mano sopra un tappeto umano, con la speranza di tenerli in alto e farli arrivare all’uscita incolumi, non travolti dalla folla.



Al temine della festa riaffiorano, una ad una, tutte le nostre espressioni che si erano confuse tra la polvere accumulata nei giorni. Chi può si tiene stretto fino all’ultimo i colori caduti sul viso. Come a sperare che quella magia possa durare anche solo un minuto in più.

Poi inevitabilmente si ritorna alla normalità, e si ricomincia ad aspettare il tempo in cui tutti potranno permettersi di nuovo il lusso di dimenticare la miseria e le divisioni per farsi colorare ancora una volta dall’amore di Krishna, sia pure per quei pochi splendidi giorni.